La schiuma della memoria

Qui si parla innanzitutto di un romanzo, uscito nel novembre del 2010 presso le edizioni Montag di Tolentino.
Il titolo è La schiuma della memoria e l'ho scritto io.
Poi si parla e si scrive di altre cose, di fotografie e di film, di libri letti e di teatro, di teatroterapia e di paesaggio. E di altro ancora. L'intenzione è comunque quella di raccordare la memoria con l'attualità per ritrovare il senso perduto degli eventi e per non dimenticare personaggi che con le loro vite hanno scritto pagine di storia non solo privata, ma anche collettiva. Molti di essi sono i miei riferimenti culturali e di valore. Il romanzo stesso dialoga con questi contenuti, in modo dinamico, in costante evoluzione, perché la memoria non è cristallizzazione ma è senso e significato. Mi piacerebbe che la lettura del blog desse anche il piacere della scoperta e di un punto di vista sul mondo spostato dalla norma, in qualche modo sorprendente. Buona lettura.

Una disperata passione di essere nel mondo


Una disperata passione di essere nel mondo


Mi chiederai tu, morto disadorno,
di abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?
(Pier  Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, V)

1 –Memoria

Cominciamo dall’inizio, anzi dalla fine, cioè dalla morte, preannunciata e immaginata dal giovane poeta Pasolini in una poesia della raccolta La meglio gioventù [II parte, Suite furlana (1944-1949)].

Il dì da la me muàrt


Ta na sitàt, Triest o Udin,
ju par un viàl di tèjs,
di vierta, quan’ ch’a mùdin
il colòur li fuèjs,
i colarài muàrt
sot il soreli ch’al art
biondu e alt
e i sierarài li sèjs,
lassànlu lusi, il sèil.

Sot di un tèj clìpid di vert
i colarài tal neri
da la me muàrt ch’a dispièrt
i tèjs e il soreli.
I bièj zuvinùs
a coraràn ta chè lus
ch’i ài pena pierdùt,
svualànt fòur da li scuelis
cui ris tal sorneli.[1]

(Il giorno della mia morte. In una città, Trieste o Udine,/per un viale di tigli,/in primavera, quando mutano/colore le foglie,/io cadrò morto/sotto il sole che arde/biondo e alto/e chiuderò le ciglia,/lasciando al suo splendore, il cielo.// Sotto un tiglio tiepido di verde/cadrò nel nero/della mia morte che disperde/i tigli e il sole./I bei giovinetti/correranno in quella luce/che ho appena perduto,/volando fuori dalle scuole/coi ricci sulla fronte.)

Un’immagine dolce, una vita che se ne va immersa nella bellezza della vita circostante, un fenomeno naturale di passaggio del testimone ad altre vite più in armonia con la primavera che esplode intorno. Purtroppo, in questo caso, Pasolini non fu buon profeta: la sua morte fu violenta come le vite e le morti che aveva raccontato nei suoi romanzi e nel suo ultimo film, Salò.
La poesia è scritta in dialetto friulano, forse la lingua madre di Pasolini (nato a Bologna nel 1922), essendo il Friuli la terra di origine della madre del poeta. In Friuli, Pasolini visse con la famiglia a più riprese, prima frequentando le scuole elementari a Sacile, poi sfollando a Casarsa durante la seconda guerra mondiale per sfuggire ai bombardamenti e infine fondando insieme ad altri a Pordenone la Federazione comunista locale. Il 28 gennaio del 1950, dopo le prime denunce di corruzione di minori e di atti osceni e dopo essere stato espulso dal Pci per indegnità morale e politica, lasciò definitivamente il Friuli per Roma, dove si trasferì con la madre.

Quando e dove muore Pasolini in realtà? Nel 1975, a Roma, per la precisione al lido di Ostia, ucciso da Pino Pelosi, detto “Er Rana”, e forse da altri, di cui però non si è mai saputo nulla con certezza.

Nanni Moretti rende omaggio a Pasolini nel 1993, nel primo episodio di Caro diario (In Vespa), che si chiude proprio con un giro in vespa fino al luogo dove è morto lo scrittore e regista. Un recinto di filo spinato sventrato dagli anni e dalle intemperie, un monumento semplice e solitario, abbandonato dall’incuria a se stesso e alla stupidità dei vandali. Una specie di riflessione silenziosa, un grido mancato, rimasto sospeso nella gola.

Ma torniamo al 1975, anno della morte e anno di uscite importanti, fra le quali La divina mimesis, consegnato alla stampa incompleto dopo una lavorazione di oltre un decennio. Si trattava di un progetto ambizioso, concepito negli anni ’60, una vera e propria ri-scrittura della Divina Commedia dantesca, ambientata nella contemporaneità. Pasolini, licenziando per la stampa la Divina mimesis,  la presentava come un documento: della crisi che lo aveva attanagliato verso la metà degli anni ’60, certamente, ma anche testo da aggiungere agli altri per quella sorta di monumento autobiografico, composto di materiale scritto, visivo, sonoro, affascinante mosaico per un romanzo impossibile, che è l’opera omnia del nostro autore. L’approccio autobiografico è documentabile fin dalle prime pagine:

“Intorno ai quarant’anni, mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita. Qualunque cosa facessi, nella Selva della realtà del 1963, anno in cui ero giunto, assurdamente impreparato a quell’esclusione dalla vita degli altri che è la ripetizione della propria, c’era un senso di oscurità. Non direi di nausea o di angoscia: anzi, in quella oscurità, per dire il vero, c’era qualcosa di terribilmente luminoso: la luce della vecchia verità, se vogliamo, quella davanti a cui non c’è più niente da dire. Oscurità uguale luce. [...] E mentre rovinavo giù, giustamente ridicolo per la mia antica vittoria su un mondo cui io appartenevo senza nessuna ragione di ritenermene più alto, ecco che mi apparve una figura, in cui dovevo ancora una volta riconoscermi, ingiallita dal silenzio. [...]Così, con quel sorriso che lo deformava, assomigliava un po’ a un povero bandito scalcagnato e sporco. E disse: “Sono settentrionale: in Friuli è nata mia madre, in Romagna mio padre;  vissi a lungo a Bologna e in altre città e paesi della pianura padana...”[...]
Ma quando il sorriso, bene o male, finì di tirargli la bocca sull’ombra delle estremità infossate della chiostra giallastra dei denti, un’aria di ingenua nobiltà gli invase tutto il volto. “Sono nato sotto il fascismo, benché fossi ancora un ragazzo quando cadde. E vissi poi a lungo a Roma, dove del resto il fascismo, con altro nome, continuava: mentre la cultura della borghesia squisita non accennava a tramontare, andando di pari passo con l’ignoranza delle sconfinate masse della piccola borghesia. [...] Fui poeta”, aggiunse rapido, quasi volesse ora dettare la sua lapide. “Cantai la divisione nella coscienza, di chi è fuggito dalla sua città distrutta, e va verso una città che deve essere ancora costruita. [...] È perciò che sono destinato a ingiallire così precocemente: perché la piaga di un dubbio, il dolore di una lacerazione, divengono presto dei mali privati, di cui gli altri hanno ragione di disinteressarsi. E poi... ognuno ha un momento solo, nella vita” [...] Era misero, minuto, il mio soccorritore: non era padre, non era fratello maggiore, non aveva l’imponenza consolatrice di chi rappresenta l’autorità; poteva tutt’al più essere una guida di montagna. Ma santo cielo!, in una circostanza come quella, in cui la mia vita pareva implicare cielo e terra, presentandosi come una gran favola edificante [...] poteva capitarmi un incontro un po’ migliore, o almeno un po’ più romanzesco! Tutto era fatto per questo, mi pareva: per presupporre una grande guida, venuta su lungo le vie del necessario, con lo splendore della poesia, dal fondo della mia storia, della mia cultura. Poteva essere, per esempio, Gramsci stesso..., lui, venuto fuori dalla piccola tomba del cimitero degli inglesi al Testaccio, la capigliatura un po’ romantica degli anni venti e quei poveri occhiali d’intellettuale borghese... Oppure, ecco!, poteva capitarmi Rimbaud, il mio Rimbaud dei diciotto anni, per ammirarlo con tutta l’anima infantile... Oppure, infine, poteva essere Charlot...
Non avevo invece davanti a me che lui, un piccolo poeta civile degli anni cinquanta, come egli amaramente diceva: incapace di aiutare se stesso, figurarsi un altro. Eppure era chiaro che al mondo, nel mio mondo, non avrei potuto trovare altra guida che questa.” (La Divina mimesis, Einaudi, 1975 e 1993, pp. 7-16)

Gramsci, Rimbaud, Charlot. Forse tre dei possibili alter ego dello scrittore, ma anche tre guide, in qualche modo, fonti di ispirazione, maestri di cultura e formazione; però la guida di Pasolini è Pasolini stesso, un piccolo poeta civile degli anni cinquanta, non certo per autoreferenzialità, ma per quel suo sentirsi isolato intellettualmente: quale altra guida, infine, se non se stesso, la propria coscienza (nel mio mondo, non avrei potuto trovare altra guida che questa)?
La Divina mimesis è ricordata anche in un libro uscito nel 2004 per l’editore Sironi. Alberto Garlini, che è nato a Parma nel 1969 ma vive a Pordenone, immagina gli ultimi mesi della vita di Pasolini, costruendo un romanzo dall’impianto ambizioso, che attraversa e avvicina storia recente, cronaca e fantasia. Il 16 giugno 1975 il narratore assiste a una partita realmente giocata fra la troupe di Novecento di Bernardo Bertolucci (in lavorazione nella bassa parmense) e la troupe di Salò o Le 120 giornate di Sodoma di Pasolini (in lavorazione nei pressi di Mantova). A partire da quella partita, Garlini dà la parola ai personaggi, facendo dire a Bertolucci:

“Pier Paolo è dantesco fino al midollo. [...] Agli inizi degli anni’60 ha tentato una riscrittura della Divina Commedia: La Divina mimesis [...] L’oscurità di Pier Paolo è aumentata in questi ultimi anni, ormai è un’apocalisse, un senso totale di morte e di estraneità al suo tempo. Salò è il vaudeville finale di una decadenza inesorabile. Gli uccelli stanno strappando la carne ai cadaveri di un’epoca...” (Garlini, 2004, p. 28)

In effetti, lo stesso Salò è costruito con una struttura a gironi, come l’inferno dantesco. Il racconto è ambientato negli ultimi giorni di vita della Repubblica di Salò ed è composto da quattro parti: un prologo e, appunto, tre gironi. Nel prologo (Antinferno), quattro libertini fascisti che rappresentano simbolicamente quattro poteri (un’eccellenza –il potere giudiziario- , un duca –il potere nobiliare-, un monsignore –il potere ecclesiastico-, un presidente –il potere economico-) stilano un regolamento legato all’orgia colossale che si apprestano a organizzare. Si procurano la materia prima mediante un rastrellamento di adolescenti ambosessi selezionati nelle campagne emiliane. Il regolamento è ferreo (innanzitutto sono assolutamente vietati i rapporti sessuali fra le vittime, se non espressamente richiesti dai sadici padroni). Chi trasgredisce viene ucciso: succede all’inizio, quando uno dei rastrellati cerca di fuggire e di nuovo quando un ragazzo viene ucciso a colpi di pistola perché, sorpreso a letto con una ragazza di colore, saluta i gerarchi con il pugno alzato. Ogni girone è caratterizzato da una narratrice che, accompagnata al piano da un’altra signora, racconta le più truci perversioni di cui è stata testimone nella sua vita, allo scopo di eccitare i libertini.
Nel girone delle manie, i signori, eccitati dai racconti della dama di turno, mettono in pratica le perversioni sulle giovani vittime, fra citazioni di Nietzsche e Baudelaire e disquisizioni sul potere, concluse dall’affermazione che i fascisti sono i veri anarchici.
Nel girone della merda, i prigionieri sono costretti a consumare, in un banchetto allestito con grande sfarzo, pietanze che in realtà sono i loro stessi escrementi, sequestrati il mattino dai loro signori. I sadici libertini discutono dell’atto sodomitico come gesto di morte ripetibile all’infinito, inscenano un concorso per il più bel culo, con ripetute violazioni dei partecipanti, in cui il primo premio è costituito dalla condanna a morte. La condanna non viene poi eseguita per  lasciare aperta la porta alla sua possibile, infinita ripetizione.
Nel girone del sangue, i prigionieri sono costretti al guinzaglio come cani a mangiare cibi contenenti chiodi e pezzi di vetro, poi vengono seviziati e torturati in un crescendo di violenza, fino all’orgia finale in cui tutti i prigionieri, eccezion fatta per i collaborazionisti e i delatori, vengono torturati col fuoco, violentati e uccisi, mentre ognuno di lor signori, a turno, osserva col binocolo da una finestra. Il film si chiude con due ragazzi collaborazionisti che muovono alcuni passi di danza al ritmo di un disco ballabile, parlando come se niente fosse delle loro fidanzate, una delle quali si chiama Margherita.
Così racconta Pasolini la genesi del film, che inizialmente era stato offerto come film tratto da Le 120 giornate di Sodoma di De Sade all’amico Sergio Citti e di cui lui stava scrivendo parte della sceneggiatura:

“Il mio principale apporto alla sceneggiatura è consistito nel dare alla sceneggiatura una struttura di carattere dantesco che probabilmente era già nell’idea di De Sade, cioè ho diviso la sceneggiatura in gironi, ho dato alla sceneggiatura questa specie di verticalità e di ordine di carattere dantesco. Ma mentre lavoravamo a questa sceneggiatura, Sergio Citti man mano si disamorava perché gli era giunta un’altra idea, l’idea di un altro film e io invece pian piano me ne innamoravo e me ne sono innamorato definitivamente quando è avvenuta questa illuminazione, quando cioè è venuta l’idea di trasporre De Sade nel ’44 a Salò.” [2]

Il film è metafora del corpo devastato dal consumismo, potere assoluto e dittatoriale che secondo Pasolini aveva reincarnato in sé i peggiori aspetti del fascismo, dall’obbligo sociale del gesto (penso al saluto romano) al corpo ridotto a cosa in certe pratiche che ricordano quelle narrate dal film (la forzata ingestione dell’olio di ricino per i critici del regime o le bastonature). Il sesso di Salò è programmaticamente metafora del potere di consumi, che era diventato l’ossessione intellettuale del Pasolini saggista e commentatore (per esempio, negli Scritti corsari). “Una sorta di viaggio iniziatico della nuova gioventù negli orrori della società dei consumi”, come scriveva Serafino Murri, luogo e sistema in cui, paradossalmente la prima merce a consumarsi è il proprio corpo. Così lo stesso Pasolini dichiarava in un’auto-intervista pubblicata sul Corriere della sera:

“Il sesso è oggi la soddisfazione di un obbligo sociale, non un piacere contro gli obblighi sociali. Oltre che la metafora del rapporto sessuale (obbligatorio e brutto) che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, tutto il sesso che c’è in Salò (e ce n’è in quantità enorme) è anche la metafora del rapporto del potere con coloro che vi sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione, magari onirica, di quella che Marx chiama la mercificazione dell’uomo: la riduzione del corpo a cosa (attraverso lo sfruttamento).” (Autointervista in Corriere della sera, 25 marzo 1975)

Molti hanno visto nel film, proiettato postumo per la prima volta a Parigi, tre settimane dopo la morte del regista, una sorta di canto di morte, di suicidio preannunciato (anche la pianista del film, a un certo punto, di fronte all’orrore delle torture si uccide gettandosi dalla finestra, senza aver dato in precedenza segnali di disgusto o di orrore). Lo stesso Pasolini aveva scritto in precedenza (1967):

“Allora qui devo dire che cosa penso io della morte. [...] Finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di poter dare un senso alla mia azione, che dunque, in quanto momento linguistico, è mal decifrabile. È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie  i suoi momenti veramente significativi, e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile. Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci.” (Empirismo eretico, Garzanti, 1972 e 1991, p. 240-241).

Non credo in realtà che quella del film-testamento sia una interpretazione corretta, perché Pasolini aveva in progetto altri film, uno su San Paolo, che sarebbe stato una feroce critica alla chiesa e al clericalismo; un altro sull’Ideologia, titolo provvisorio Ta kai Ta (“Questo e quello” in greco), il viaggio dietro alla cometa di un magio randagio.[3] Questo secondo progetto, sviluppato successivamente insieme a Sergio Citti col titolo provvisorio di Porno Teo Kolossal, fu rivisto proprio alla luce di Salò e filtrato attraverso il suo orrore. Come spiega Serafino Murri[4], il film in progetto è un viaggio picaresco, simile a quello di Uccellacci e uccellini (1965), in una ipotetica Italia degli anni cinquanta, compiuto dal magio napoletano Epifanio e dal suo servo romano Nunzio (Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli), che seguendo una cometa raggiungono il Nuovo Messia a Roma, ridenominata Sodoma. Poi il viaggio prende la direzione di Milano, ribattezzata Gomorra. Le due città sono speculari: a Sodoma si partica per legge solo l’amore omosessuale, riservando a un giorno dell’anno la festa del coito eterosessuale, e non si conosce violenza; a Gomorra, vige invece la regole della violenza eterosessuale, gli abitanti sono dediti alla violenza e all’intolleranza, la folla inferocita sbrana due omosessuali. Da lì l’azione si sposta a Parigi (Numanzia), città socialista che sta per essere invasa dai fascisti e sceglie il suicidio collettivo invece di cadere nelle mani della barbarie tecnologica neonazista. Seguirà un viaggio a Oriente, che vedrà la morte di Epifanio. Nun esiste la fine, aspettamo, quarche cosa succederà, avrebbe detto Ninetto per chiudere il film, nelle intenzioni di Pasolini.
Non esiste la fine. Pasolini avrebbe voluto continuare a scrivere, dirigere film, scandalizzare. Non cercava la morte, come testimonia la continuità dei temi di Porno Teo Kolossal con quelli di Salò.
Così Garlini descrive la morte di Pasolini, in modo secco e asciutto:

“Pasolini morì a Ostia, il due novembre del 1975, ucciso da un giovinetto di strada, Pino Pelosi, col quale si era appartato dopo una cena in trattoria.” (Garlini, op. cit. p. 23)

Il due novembre, il giorno dei morti. Il giorno del senso delle vite di coloro che non ci sono più. Ma la morte, se da un lato restituisce senso alla vita passata con un linguaggio che diviene comprensibile, dall’altro coincide con lo smarrirsi della possibilità di essere compresi, come lo stesso Pasolini sottolinea in alcuni significativi versi composti negli anni fra il 1961 e il 1964. 

 

Una disperata vitalità

Come in un film di Godard: solo
in una macchina che corre per le autostrade
del neo-capitalismo latino –di ritorno dall’aeroporto- [...]
-sono come un gatto bruciato vivo,
pestato dal copertone di un autotreno,
impiccato da ragazzi a un fico,

ma ancora almeno con sei
delle sue sette vite,
come un serpe ridotto a poltiglia di sangue
un’anguilla mezza mangiata

-le guance cave sotto gli occhi abbattuti,
i capelli orrendamente diradati sul cranio
le braccia dimagrite come quelle di un bambino-
un gatto che non crepa, Belmondo
che “al volante della sua Alfa Romeo”
nella logica del montaggio narcisistico
si stacca dal tempo, e v’inserisce
Se stesso:
in immagini che nulla hanno a che fare
con la noia delle ore in fila...
col lento risplendere a morte del pomeriggio...

La morte non è
Nel non poter comunicare
ma nel non poter più essere compresi. [...][5]

2 - Una storia sbagliata


Nel 1980, De André scrive insieme a Massimo Bubola, Una storia sbagliata. La canzone è la sigla di un programma televisivo che si propone di ricordare Pasolini a cinque anni dalla sua morte. Il brano non è fra i più riusciti di De André, ma un’immagine vale la pena di essere ricordata:
“Cominciò con la luna sul posto/e finì con un fiume d’inchiostro/è una storia un poco scontata/è una storia sbagliata.”
De André e Bubola, nelle varie strofe della canzone, così definiscono la vicenda dell’assassinio di Pasolini: una storia sbagliata, una storia da dimenticare, una storia da non raccontare, una storia un po’ complicata, una storia di periferia, una storia sconclusionata, una storia vestita di nero, una storia da basso impero, una storia mica male insabbiata.
Fabrizio De André ricordava così la morte del regista e scrittore:

“La morte di Pasolini ci aveva resi come orfani. Ne avevamo vissuto la scomparsa come un grave lutto, quasi come se ci fosse mancato un parente stretto. Un aspetto tragico che abbiamo voluto sottolineare è quello legato a una moda tuttora trionfante, che si lega al clima d’ignoranza e di caccia al diverso. E cioè che della morte di un grande uomo di pensiero sia stata fatta carne di porco, da sbattere sul banco della macelleria dei settimanali spazzatura, e non solo quelli.” (Romana, 2005, p. 67)

De André si era sentito spesso vicino a Pasolini. Per esempio, quando si apprestava a scrivere La buona novella, concept album del 1970, ispirato ai vangeli apocrifi. Ecco come De André, a colloquio con l’amico Cesare G. Romana, parla insieme a lui della sua idea:

“[Cesare] Un vangelo senza Cristo?” [risponde Fabrizio:] “Diciamo un vangelo concreto. Cristo non appare mai ma c’è sempre: è il filosofo anarchico, il profeta d’amore che dalle quinte determina tutto”. “Se ho ben capito, il Vangelo rivisto da un non credente, come quello di Pasolini”. [...] “Bravo, come Pasolini. Non per niente lui ha dedicato il suo vangelo a Giovanni XXIII, un papa così anomalo che sembrava addirittura un uomo” (ivi, p. 32).

Oppure, quando scriveva La cattiva strada, canzone composta nel 1975 insieme a Francesco De Gregori,[6] che mi ha sempre fatto pensare per analogia a Teorema di Pasolini (film del 1968 e romanzo del 1969), impressione confermata da Romana nella sua analisi:

“Un ritmo da strada, un trotto di chitarra e un canto di tastiere lontane scortano il viaggio del protagonista: solitario, enigmatico al punto da rammentare l’eroe di Teorema, al cui amore corsaro finiranno per cedere tutti i personaggi del racconto pasoliniano.” (ivi, p. 73).

Oppure ancora,  quando nel romanzo Un destino ridicolo, scritto da De André a quattro mani con Alessandro Gennari, Pasolini viene collocato nella galleria di riferimenti intellettuali amati dal cantautore genovese insieme a Villon, Stirner, Proudhon, Dante, Dylan e Cristo.

3 - La politica: processo alla Dc e rivolta giovanile

La pista politica dell’omicidio Pasolini fu sempre suggerita, accennata, mai percorsa fino in fondo. Erano anni difficili, quelli a metà degli anni ’70: gli anni del terrorismo che proseguiva la sua excalation. Pasolini si definiva non cattolico (né “praticante”, né “inconscio”), marxista e omosessuale, identità allora inconciliabili. Il dichiarare la sua preferenza sessuale fu un atto politico, che lo portò a incomprensioni, difficoltà e isolamento anche nel Pci, in cui era entrato negli anni ’40 e da cui era stato espulso per indegnità morale e politica. Ma lui, pur avvicinandosi negli anni ’70 al Partito Radicale, che faceva della difesa dei diritti degli omosessuali e delle prostitute, più in generale dei diritti civili tout court, la sua bandiera, rimaneva orgoglioso di essere e sentirsi comunista. Per cui, il patto sempre più esplicito fra Dc e Pci, il cosiddetto compromesso storico, indigna Pasolini (oltre a deludere buona parte della sinistra), insieme a chi aveva chiesto la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica Giovanni Leone. In un articolo pubblicato dal Corriere della sera (Il processo, 24 agosto 1975), edito poi da Einaudi nelle Lettere luterane (1976), Pasolini propone un vero e proprio processo penale a carico dei potenti democristiani:

“Dunque: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri,con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono <<selvaggio>> delle campagne, responsabilità dell’esplosione <<selvaggia>> della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche la distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori. Ecco l’elenco, l’elenco <<morale>> dei reati commessi da coloro che hanno governato l’Italia negli ultimi trent’anni, e specie negli ultimi dieci: reati che dovrebbero trascinare almeno una dozzina di potenti democristiani sul banco degli imputati, in un regolare processo penale, simile, per la precisione a quello celebrato in Grecia contro Papadopulos e gli altri colonnelli. [...] L’immagine di Andreotti o Fanfani, di Gava o Restivo, ammanettati fra i carabinieri, sia un’immagine metaforica. Il loro processo sia una metafora. [...] Ma una volta condannati i potenti democristiani (alla fucilazione, all’ergastolo, all’ammenda di una lira), sarebbe chiaro a tutti non solo che un gruppo di corrotti, di inetti, di incapaci, è stato tolto di mezzo, ma anche e soprattutto che un’epoca è finita e che ne deve cominciare un’altra.” (Il processo, in Lettere luterane, pp. 114-116)

 Pasolini, addirittura, riprendendo la polemica nei giorni successivi (Bisognerebbe processare i gerarchi dc, Il mondo, 28 agosto 1975), arriva a definire gerarchi i potenti.

Altro dibattito politico che vide un’attenta partecipazione del Pasolini polemista fu la rivolta giovanile del 1968 e degli anni successivi. Dopo il rovesciamento dei termini borghese/proletario nella lettura dell’episodio di Valle Giulia (1968), in cui Pasolini si schierò al fianco dei poliziotti, da lui considerati i veri proletari della situazione, di fronte ai figli capelloni della borghesia, il nostro riprese più volte il discorso, anche a distanza di anni. Per esempio, in Contro i capelli lunghi (Corriere della sera del 7 gennaio 1973), in cui Pasolini analizza il linguaggio non verbale che è pronunciato dai capelli lunghi. <<L’ineffabilità era l’ars retorica della loro protesta>>. Dichiara di avere provato immediata antipatia per i due capelloni visti per la prima volta a Praga, antipatia poi rimangiata per difendere i capelloni dagli attacchi della polizia (eccezion fatta per l’episodio prima citato) e dei fascisti, per il principio <<rigorosamente democratico>> che lo portava a essere dalla parte del Living Theatre o dei Beats. I capelli lunghi nel ’66-’67 dicevano: <<La civiltà consumistica ci ha nauseato>>, una cosa di sinistra, secondo Pasolini. Così come i capelloni dicevano cose di sinistra nel ’68 (Che Guevara era capellone). Poi, col passare del tempo, il capello lungo non fu più un segno, una distinzione, si era diffuso trasversalmente presso ceti sociali e ideologie politiche.

“Il ciclo si è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all’opposizione e l’ha fatta propria: con diabolica abilità ne ha fatto pazientemente una moda, che, se non si può proprio dire fascista nel senso classico della parola, è però di un’estrema destra reale. [...] Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossessivo linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le cose della televisione o delle réclames dei prodotti, dove è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi: fatto che, oggi, sarebbe scandaloso per il potere. [...] La loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è più difendibile, perché non è più libertà. (Scritti corsari, p. 10-11)

Questi giovani conformisti divengono, nelle Lettere luterane, “I giovani infelici”. Pasolini si sente ormai anagraficamente nella generazione dei padri e sente la tragedia di Edipo dalla parte del padre, come già aveva dimostrato facendo dire al neo-padre, protagonista moderno del prologo e dell’epilogo dell’Edipo Re (film del 1967) le seguenti parole:
“ ed ecco il figlio che ti scaccerà, che ti ucciderà, che si prenderà il tuo posto nel mondo, come ora si è preso la carne di lei, come ora ha rubato l’amore di lei; già ti ha rubato lo sguardo di lei, con lui lei già ti tradisce”. Parole forti, parole terribili, riprese da Vinicio Capossela nell’album del 2006 Ovunque proteggi, nella canzone Brucia Troia. Indubbiamente Pasolini piace ai nostri migliori cantautori!

“Uno dei temi più misteriosi del teatro greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti. È il coro che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale. Confesso che questo tema del teatro greco io l’ho sempre accettato come qualcosa di estraneo al mio sapere, accaduto altrove e in un altro tempo. [...] Ma poi è arrivato il momento della mia vita in cui ho dovuto ammettere di appartenere senza scampo alla generazione dei padri. [...] Ho osservato a lungo in questi ultimi anni, questi figli. [...] Ebbene, non esito neanche un momento ad ammetterlo: ad accettare cioè personalmente tale colpa. Se io condanno i figli e quindi presuppongo una loro punizione, non ho il minimo dubbio che tutto ciò accada per colpa mia. In quanto padre. In quanto uno dei padri. Uno dei padri che si sono resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine. [...] I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica, squallidamente barbarica. Oppure, sono maschere di un’integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà. [...] La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. [...] Perché c’è –ed eccoci al punto- un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con quella della classe dominante. In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.” (Lettere luterane, 1976, pp. 5-12)

Pasolini nel ‘68 gira un film e l’anno successivo scrive un romanzo, con lo stesso titolo, Teorema. Narrano entrambi le vicende di una famiglia borghese travolta nei suoi equilibri dall’arrivo di un giovane che avrà rapporti sessuali con tutti i componenti del nucleo familiare: la figlia, la madre, il figlio, il padre e, per non scontentare nessuno, anche con la governante. Come già dicevo prima, il protagonista (nel film interpretato da Terence Stamp) mi ha sempre ricordato il personaggio di una canzone di De André, La cattiva strada. Dal punto di vista dell’Ospite, però, il sesso non è usato come atto di redenzione o di protesta, nè come atto rivoluzionario, ma qualcosa di vissuto in modo del tutto naturale. È però al di fuori dei canoni borghesi di ordine, possesso e benessere sociale e diviene a suo modo sacro, per il senso di colpa con cui lo vivono tutti i componenti della famiglia. Nelle intenzioni di Pasolini, il protagonista ha la funzione divina dell’Angelo Sterminatore della borghesia.

“L’irresistibilità dell’Ospite portatore del sacro non sta infatti nell’indominabilità degli elementi che esso mette in gioco (infrazione dei tabù sessuali, amore senza possesso, etc.) ma nella irriducibilità di tali elementi ala logica razionale  su cui la borghesia ha edificato il proprio teorema di auto perpetuazione. L’Ospite nella villa della famiglia borghese non ha qualità superumane, ma è appunto la sua alterità “senza qualità” a distruggere, senza far uso di male e di violenza, ma anzi con il bene e l’amore, l’apparato razionale dell’identità di ognuno dei membri della famiglia. E in questo consiste, per Pasolini, l’unica possibilità della rivoluzione: nello scardinamento della logica che conserva la società dello sfruttamento, non attraverso le ragioni di un’utopia da essa stessa elaborata [...], ma attraverso ciò che ad essa è del tutto estraneo, e che, a rigore, non possiede quella struttura concettuale tautologica che la condanna ad essere o indefettibilmente se stessa o il nulla. Un tale concetto di rivoluzione, che include l’idea di un’estraneità necessaria, di un’utopia innegabile, e che ha per condizione un diverso senso del mondo e dell’umanità, è un concetto più filosofico che pragmatico, più inerente alla riflessione che al comizio: dunque non poteva che guadagnare a Pasolini, nel pieno del periodo contestatario, gli epiteti di <<cattolico delirante>>, <<reazionario>>, <<rivoluzionario da salotto>>, da parte dei difensori della inattaccabilità della ragione illuministica: tanto coloro che la difendevano dall’alto delle istituzioni, quanto coloro che propugnavano proprio quel tentativo di rivoluzione borghese contro cui il Teorema pasoliniano si scaglia” (Murri, 1995, pp. 103-104)

È interessante porre a confronto i finali del film e del romanzo, perché mi sembra che restituisca la grande competenza di Pasolini nel proporre la stessa scena con il linguaggio specifico del medium utilizzato.
Nel film si vede il padre camminare nudo nel deserto, dopo che si è spogliato in piena stazione centrale di Milano e ha donato la fabbrica agli operai. Percorre il deserto disperato, barcollante, procede vagando a zig zag, senza una direzione precisa. Accompagnato dalle note strazianti del  Requiem mozartiano, l’uomo vaga nel deserto e, messosi di fronte alla propria nudità, si scioglie in un urlo d’impotenza, ma anche di belva ferita, l’urlo della consapevolezza di avere perso un’identità, di non essere più, l’urlo, in fin dei conti, del nulla. Consiglio la visione del film per meglio apprezzare la costruzione magistrale di Pasolini regista.
Il finale del romanzo, scritto in versi:

“Ah, miei piedi nudi, che camminate
sopra la sabbia del deserto!
Miei piedi nudi, che mi portate
là dove c’è l’unica presenza
e dove non c’è nulla che mi ripari da nessuno sguardo!
Miei piedi nudi
che avete deciso un cammino
che io adesso seguo come in una visione
avuta dai padri
[...]
Come già per il popolo d’Israele o l’apostolo Paolo,
il deserto mi si presenta come ciò
che, della realtà, è solo indispensabile.
[...]
Non c’è infatti, qui intorno, niente
oltre a ciò che è necessario:
la terra, il cielo e il corpo di un uomo.
Per quanto folle, abissale o etereo
sia l’orizzonte oscuro, la sua linea è una:
e qualunque suo punto è uguale a un altro punto. 
Il deserto oscuro che sembra sfolgorare
tanta è la sua durezza zuccherina,
e la cavità del cielo, immedicabilmente azzurra,
mutano sempre ma sono sempre uguali.
Bene. E cosa dire di me?
Di me che sono dove ero, e ero dove sono,
automa di una persona reale
mandato nel deserto a camminare per essa?
IO SONO PIENO DI UNA DOMANDA A CUI NON SO RISPONDERE.
Triste risultato, se questo deserto io l’ho scelto
come il luogo vero e reale della mia vita!
Colui che cercava per le strade di Milano
è lo stesso che cerca ora per le strade del deserto?
[...]
Dunque, il mio viso è dolce e rassegnato quando cammino lentamente,
affannato e grondante di sudore, quando corro;
pieno di uno spavento sacro, quando guardo intorno questa unicità senza fine,
infantilmente preoccupato,
quando osservo sotto i miei piedi nudi,
la sabbia su cui scivolo o mi arrampico.
[...]
Perché, fuori dalla mia volontà,
la mia faccia si contrae, le vene
del collo mi si gonfiano,
gli occhi mi si riempiono di una luce infuocata?
E perché l’urlo, che, dopo qualche istante,
mi esce furente dalla gola,
non aggiunge nulla all’ambiguità che finora
ha dominato questo mio andare nel deserto?
È impossibile dire che razza di urlo
sia il mio: è vero che è terribile
-tanto da sfigurarmi i lineamenti
rendendoli simili alle fauci di una bestia-
ma è anche, in qualche modo, gioioso,
tanto da ridurmi come un bambino.
È un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno
o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo.
È un urlo che vuol far sapere,
in questo luogo disabitato, che io esisto,
oppure, che non soltanto esisto,
ma che so. È un urlo
in cui in fondo all’ansia
si sente qualche vile accento di speranza;
oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda,
dentro a cui risuona, pura, la disperazione.
Ad ogni modo questo è certo: che qualunque cosa
questo mio urlo voglia significare,
esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine.” (Teorema, Garzanti, 1969 e 1991, pp. 197-200)

Del brano precedente, a proposito di oralità e scrittura, trovo sorprendente la grafia e i caratteri usati. In particolare, mi riferisco al tutto maiuscolo (“IO SONO PIENO DI UNA DOMANDA A CUI NON SO RISPONDERE”) che, nella contemporanea scrittura in rete equivale, per convenzione, all’urlato: il brano si conclude con un urlo descritto nel romanzo e gridato nel film. E già sappiamo come il linguaggio digitale sia considerato una forma di ibridazione fra lingua scritta e lingua orale (vedansi Roversi, Introduzione alla comunicazione mediata dal computer, Il Mulino, 2004 e Bosi, Il sentimento del tempo e del luogo, Unicopli, 2005).
Per raccontare il ’68 e le sue speranze, Pasolini utilizza anche il registro espressivo del teatro. La sua analisi su cinema e teatro come forme di espressione ha molto a che fare, ancora una volta, col tema dell’oralità e della scrittura. Infatti, per il nostro autore, mentre il cinema è la lingua scritta della realtà, intendendo con questa affermazione superare il concetto di cinema come linguaggio, di cui si può effettuare semplicemente una descrizione semiologica, per approdare a una vera e propria lingua, quindi a una grammatica della tecnica audiovisiva, il teatro è teatro di parola. La lingua è composta da una lingua orale e da una lingua scritta. La prima è un continuo storico, naturale, esistenziale; la seconda è una convenzione che fissa la lingua orale e sostituisce il canale bocca-orecchio, col canale riproduzione grafica-occhio. Se il primo linguaggio degli uomini è l’agire, il cinema è vicino alla vita, anzi si identifica con essa:

“In realtà il cinema lo facciamo vivendo, cioè esistendo praticamente, cioè agendo. L’intera vita, nel complesso delle sue azioni, è un cinema naturale e vivente: in ciò è linguisticamente l’equivalente della lingua orale nel suo momento naturale o biologico. Vivendo, dunque, noi ci rappresentiamo, e assistiamo alla rappresentazione altrui. La realtà del mondo umano non è che questa rappresentazione doppia, in cui siamo attori e insieme spettatori: un gigantesco happening, se vogliamo. [...] Dal grande poema d’azione di Lenin alla piccola pagina di prosa d’azione di un impiegato della Fiat o di un ministero, la vita si sta indubbiamente allontanando dai classici ideali umanistici e si sta perdendo nel pragma. [...] il cinematografo non è dunque che il momento scritto di una lingua naturale e totale che è l’agire umano nella realtà.” (La lingua scritta della realtà, in Empirismo eretico, Garzanti, 1972 e 1991,  pp. 206-207)

Per quanto riguarda il teatro, Pasolini esprime il suo pensiero compiuto al riguardo in Per un nuovo teatro. Manifesto del Teatro di parola (1968):
1) “Il teatro di parola è un teatro completamente nuovo, perché si rivolge a un nuovo tipo di pubblico, scavalcando il pubblico borghese tradizionale”.
2) “Il teatro di parola ricerca il suo spazio teatrale non nell’ambiente ma nella testa: testo e attori di fronte al pubblico. L’assoluta parità culturale fra questi due interlocutori, che si guardano negli occhi è garanzia di reale democraticità anche scenica”
3) “Il teatro di parola non ha alcun interesse spettacolare o mondano: il suo unico interesse è culturale, comune all’autore, agli attori e agli spettatori; che, dunque, quando si radunano compiono un rito culturale”. [7]
Dunque in questo contesto va inquadrato il contributo del Pasolini drammaturgo. Dicevamo poc’anzi, prima di questa digressione su cinema e teatro come forme espressive, che il ‘68 fu raccontato da Pasolini anche attraverso il teatro: teatro che assumeva dunque un significato politico anche nei contenuti, oltre che nelle intenzioni del manifesto del teatro di parola. In Calderòn, 1973,
messo in scena per la prima volta in due parti fra maggio e giugno del 1978, al Metastasio di Prato, per la regia di Luca Ronconi, il titolo è un omaggio all’autore de La vita è sogno. La vicenda è ambientata in Spagna, nel 1967, i personaggi sono, come nel lavoro di Calderòn, Basilio, Sigismondo, Rosaura, ma la trama non è la stessa. L’aggancio più concreto è nella struttura del sogno, per raccontare un fallimento politico, l’impossibilità di evadere dalla propria condizione sociale. È Rosaura che sogna e coi sogni tenta di sottrarsi al clima soffocante e al codice oppressivo in cui è costretta a vivere. Basilio incarna il potere maschile nei tre sogni di Rosaura (il re nell’ambiente aristocratico, un giovane di cui s’innamora e che poi scopre essere suo figlio –lei prostituta- nell’ambiente proletario, il marito nell’ambiente medio-borghese). Il finale del dramma è il risveglio dal terzo sogno, ambientato in un lager nazista.

“Rosaura: Sono felice, Basilio, felice. Stavolta mi ricordo il mio sogno. Ma non sono tanto felice per questo, quanto per ciò che il sogno mi ha detto.
Basilio: raccontalo!
Rosaura: La mia vera vita non si svolge in una reggia, né in una torre, né in una casa piccolo borghese: la mia vera vita si svolge in un lager, in un gelo tenebroso. Nello stanzone dove son chiusa entra un po’ di sole, riflesso dalla neve. Fuori abbaiano cani, le SS ascoltano grammofoni. Sui castelli di brande, in fila, stanno distesi i dannati: bianchi come di gesso sulle coperte grigie di polvere gelata. [...] Guardano tutti verso un punto e nelle occhiaie dove sono perduti i loro occhi, nella chiostra sporgente dei denti, vaga qualcosa d’indicibile: un sorriso. Anch’io sono lì [...] Mi tengo stretti come un tesoro i pochi oggetti che mi appartengono, qualche straccio, una fotografia... e anch’io con le bianche ossa del mio cranio, sorrido. Non siamo più uomini; non abbiamo più neanche la vita balzana degli animali; siamo cose di cui solo gli altri possono disporre. Dobbiamo fare ribrezzo per poter essere usati meglio da chi lo vuole; perché una sola libertà ci rimane: quella di tradirci. E infatti, ognuno di noi cova, col suo leggero tanfo di malato alle viscere, il desiderio di poter finalmente ammiccare ai suoi padroni, che vengono a condannarlo. Vogliamo essere noi i primi aiutanti dei nostri assassini, che hanno inventato complicati meccanismi per ucciderci insieme. [...] È l’ora in cui si aspetta; un intero meriggio e una notte da vivere! [...] Dopo un poco, da un villaggio, suonano le campane. Poi ritorna il silenzio. [...] Poi, non si è dileguato del tutto l’ultimo resto della luce, che ecco, si sente un canto. [...] è un canto sentito da bambini, quando la Spagna era libera e sui municipi c’erano bandiere rosse. Quel canto avanza, si fa sempre più distinto, è un numero immenso di persone che lo canta: sembra una marea che avanza e invade piano il lager. Eccolo, rimbomba sotto le pareti del nostro capannone; ecco, si aprono, abbattute, le porte; e, cantando, entrano gli operai. Hanno bandiere rosse strette nei pugni, con le falci e i martelli; hanno i mitra imbracciati; hanno fazzoletti rossi annodati al collo, sui colletti anneriti delle tute; portano vestiti, cappotti, cibi. Ecco, ci vengono vicini, ci abbracciano, baciano i nostri visi senza carne, le nostre carni putrefatte; ci rialzano, ci sorreggono, ci danno le vesti, ci aiutano a vestirci; ci offrono cibi da mangiare, ci versano nelle borracce del vino, lo bevono con noi, brindando; e se a noi vengono le lacrime agli occhi, piangono anche loro, di gioia, tornandoci ad abbracciare. “Siete liberi” ci ripetono, “siete liberi!”
Basilio: Un bellissimo sogno, Rosaura, davvero un bellissimo sogno. Ma io penso, ed è mio dovere dirtelo, che proprio in questo momento comincia la vera tragedia. Perché di tutti i sogni che hai fatto o che farai si può dire che potrebbero anche essere realtà. Ma, quanto a questo degli operai, non c’è dubbio: esso è un sogno, nient’altro che un sogno. (Calderòn, in Teatro, Garzanti, pp. 161-165)

4– Il sacro: la sfida di un intellettuale alla censura e alle accuse di vilipendio

Nel 1962, su una collina di tufo nella campagna alle porte di Roma, Pasolini gira La ricotta. Un poemetto per immagini, ricco di riferimenti letterari e pittorici (il Pontormo e il Rosso Fiorentino). Il film, un episodio sulla crocifissione che faceva parte di Rogopag, titolo che prendeva origine dalle iniziali dei registi dei quattro episodi (Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti). Il regista alter ego del nostro (risponde coi versi dello stesso Pasolini alle domande dei giornalisti) è Orson Welles, in bocca al quale Pasolini mette le seguenti parole: <<L’Italia ha il popolo più analfabeta  la borghesia più ignorante d’Europa. L’uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista>>. La Maddalena balla il cha cha cha davanti alla croce e il protagonista, Stracci, comparsa ladrone, povero e affamato, che nella pausa delle riprese si mangia tanta ricotta, che aveva gelosamente conservato, insieme a una montagna di maccheroni e di frutta e di altri cibi, muore d’indigestione appeso alla croce: è lui il vero povero Cristo, su un set che altro non è che il tempio invaso dai mercanti. <<Povero Stracci, hai dovuto crepare per dirci che anche tu eri vivo...>>. Il primo marzo 1963 viene sequestrato Rogopag, per l’episodio La ricotta. Vediamo le tappe del processo per vilipendio alla religione di Stato:

7 marzo 1963, sentenza di condanna in primo grado

30 maggio 1963, ricorso in appello della difesa

6 maggio 1964, sentenza di assoluzione in appello

21 luglio 1964, ricorso in Cassazione del procuratore generale in Corte d’Appello

24 febbraio 1967, sentenza definitiva in Cassazione.

Dal giugno 1968, La ricotta, definitivamente dissequestrato, può far tornare Rogopag alla sua versione originale (nel frattempo il film era finito nelle sale mutilato completamente dall’episodio di Pasolini, con il titolo Laviamoci il cervello).  Le scene incriminate: le musiche dileggianti, un rutto di un operatore, lo spogliarello della Maddalena, la frase ripetuta da Welles: “via i crocefissi!”, la risata di Cristo, l’aiuto regista che dice: è un peccato, è un peccato!, il grido: cornuti!, rivolto alle comparse-santi. Ma le disavventure in Tribunale sono già un’abitudine per Pasolini. Le prime denunce e i primi processi ci furono nel 1949 per i fatti di Casarsa (accusa di corruzione di minorenni), seguiti da una miriade di denunce. Divenne poi un’abitudine processare le opere di Pasolini, dai romanzi (Ragazzi di vita, dal 1955 al 1956; Una vita violenta, dal 1959 al 1963) ai film (Accattone, Mamma Roma, Teorema, Porcile, Decameron, I racconti di Canterbury (sequestrato più volte), Il fiore delle mille e una notte, Salò (sequestrato). La formula di assoluzione fu spesso “I fatti non costituiscono reato”, quando addirittura le sue opere non vennero assolte perché <<opere d’arte e documento di raro valore etico>> (Corte d’Appello di Milano su Salò).
Pasolini, comunque non rinunciò mai a difendere se stesso e le sue opere, continuando a dichiararsi moralmente ed empaticamente vicino al francescanesimo. Il suo omaggio alla figura di Cristo e a papa Giovanni XXIII fu Il vangelo secondo Matteo, film del 1964. Per girare Il vangelo, il regista si recò a fare dei sopralluoghi in Palestina, ma poi scelse la Lucania, ben riconoscibile soprattutto nelle prime sequenze, girate anche nei “sassi” di Matera. Puglia, Calabria e Lazio furono invece sul set la Galilea. Il Vangelo era una sfida intellettuale per Pasolini: quella di porre a confronto il sentimento religioso con la propria lucida e analitica coscienza storica di marxista convinto. D’altra parte, la poesia di Pasolini era permeata di senso del sacro, così come la sua grande ammirazione per la cultura millenaria degli umili, dei contadini. Così nel Vangelo il regista poteva trovare temi e sguardi a lui cari e in essi poteva riconoscersi. Poi c’è da aggiungere che il tema della morte, la convinzione che essa desse senso alla vita, come già segnalato nelle pagine precedenti, era vissuto da Pasolini con un’ansia metafisica che metteva in gioco il senso del sacro. Questo, nonostante il fatto che le convinzioni del regista fossero diverse dalle promesse dell’aldilà della religione cattolica: per lui c’era la morte e basta.

“Per comprendere la complessità dell’analisi pasoliniana della figura di Cristo, occorre dunque innanzitutto distinguere le due istanze da cui Pasolini ha mosso la sua lettura del Vangelo di S. Matteo: la prima è la volontà di demistificazione della soluzione divina del mistero del mondo e della morte, a favore di un più ampio e complesso senso del sacro, cioè del senso di sostanzialità dell’irresolubile, che non chiede qualcosa di ulteriore per essere compreso; la seconda èla rivoluzionarietà della diversità sociale, della non violenza e della forza del pensiero morale (un tratto, quest’ultimo, che consentiva al poeta una sorta di immedesimazione “autobiografica con la figura del Cristo”). Attraverso di esse, il regista mette in scena l’esasperata, umana passione religiosa di Cristo, che dal testo di Matteo emerge come una rabbia senza posa nei confronti del falso e un’ansia di redenzione per le vittime dell’istituzionalizzazione della religione farisaica, cieco e ottuso braccio mistico di una repressione politica e sociale che non ha nulla di divino” (Murri, Il Castoro, pp.52-53)

Pasolini voleva affidare la figura di Cristo a Jack Kerouac o ad Allen Ginsberg, i padri della beat generation americana, ma poi, non riuscendo nell’intento, scoprì per caso Enrique Irazoqui, uno studente di letteratura catalana che aveva scritto un saggio su Ragazzi di vita ed era venuto a Roma con l’unico intento di conoscere Pasolini di persona: il regista fu colpito dalla somiglianza impressionante fra i tratti somatici del giovane e quelli delle raffigurazioni del Cristo dipinte da El Greco.
La drammaticità dell’immagine nel film supera la drammaticità della parola, anticipando con il suo fare cinema la teoria del cinema come lingua della realtà, d cui abbiamo detto nelle pagine precedenti. La prima sequenza è esemplare da questo punto di vista. È l’Annunciazione: nessuna parola fra Giuseppe e Maria, solo uno scambio di sguardi inquieti e imbarazzati, una carrellata a mano a seguire la nervosa passeggiata di Giuseppe irritato e sorpreso dall’inattesa gravidanza di Maria; poi la breve spiegazione dell’Angelo, infine il riconciliarsi fra i coniugi, ancora in silenzio, con sorrisi e sguardi timidi e impacciati di fronte all’avvento del soprannaturale.

“L’immedesimazione del regista con la figura di Cristo, che costituiva la pietra dello scandalo nei confronti della critica marxista, è un dato innegabile: la sovrapposizione fra la diversità morale di Pasolini, velata dalla stessa angoscia irruenta e non violenta di quella di Cristo, dolorosa e incomunicabile, cristallina eppure impenetrabile da una prospettiva esterna, è addirittura rimarcata dall’aver fatto recitare il ruolo della Madonna adulta dalla propria madre, Susanna Paolini.” (ivi, p. 56).

5 – L’analisi culturale

Per Pasolini, la cultura di un paese è la media fra la cultura delle classi intellettuali, delle classi dominanti e delle classi subalterne.[8]  La vicinanza empatica di Pasolini alla civiltà contadina scatenò diverse polemiche, fino a portare Calvino ad irritarsi e asserire che Pasolini rimpiangesse l’<<Italietta>>. Così Pasolini rispose a Calvino dalle pagine di Paese sera:

“Caro Calvino,
[...] io rimpiangere l’Italietta? Ma allora tu non hai letto un solo verso delle Ceneri di Gramsci o di Calderòn, non hai letto una sola riga dei miei romanzi, non hai mai visto una sola inquadratura dei miei film, non sai niente di me! Perché tutto ciò che io ho fatto e sono, esclude per sua natura che io possa rimpiangere l’Italietta. [...] L’Italietta è piccolo borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico, formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato per quasi due decenni. [...] Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L’ordine in cui elenco questi mondi riguarda l’importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva. [...] L’universo contadino [...] è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni. [...] È questo mondo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango. [...] Gli uomini di quest universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente, con l’Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita. (Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino in Scritti corsari, 1975 e 1990, pp. 51-53)[9]

Per Pasolini, la cultura necessaria della civiltà contadina era stata fatta a pezzi e massacrata dai consumi di massa, il nuovo fascismo, come più volte il nostro ebbe a dire e come già segnalato anche nelle pagine precedenti. Veicolo della massificazione culturale, della distruzione delle differenze e della povertà necessaria fu la televisione, affiancata, in un’audace accoppiata di concorrenti, al cattolicesimo.

“L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente, l’unico fenomeno culturale che omologava gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale omologatore che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere. [...] Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi. [...] La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto mezzo tecnico, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso il quale passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è dubbio che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. [...] Il nuovo fascismo, attraverso la televisione ha lacerato, violato, abbrutito per sempre l’anima degli italiani. (Acculturazione e acculturazione, in Scritti corsari, pp. 23-25)[10]

Parole che, scritte nel 1973, si adatterebbero perfettamente ad un’analisi dell’attuale situazione politica italiana, in cui, nonostante la legge del 1954 che prevede l’ineleggibilità per i titolari di concessioni governative (fra cui l’etere), il proprietario di tre reti televisive (in barba ad un’altra legge che prevedeva la cessione delle frequenze della terza rete entro i primi anni del secolo XXI) possa essere stato dal 1992 al 1994 e dal 2001 al 2006 Presidente del Consiglio e che, ancora, si attenda una legge seria sul conflitto d’interessi. Chissà che cosa scriverebbe Pasolini o che cosa direbbe in tv, col suo eloquio tranquillo nei modi e feroce nei contenuti polemici. Probabilmente sarebbe stato fatto scomparire dallo schermo, come successo a Biagi, Luttazzi e Santoro con Berlusconi a capo del governo.
La capacità di vedere lontano, di leggere gli avvenimenti e fare previsioni mediante un’analisi attenta della realtà e della sua evoluzione, ha fatto di Pasolini, in questo come in altri casi, un profeta involontario. E risuonano come profetiche anche le parole con le quali egli vede nell’Africa l’ultima speranza dell’umanità corrotta dal consumismo, speranza espressa nei versi di Africa, compresa nella raccolta La religione del mio tempo: “E ora...ah, il deserto assordato/dal vento, lo stupendo e immondo/sole dell’Africa che illumina il mondo.//Africa! Unica mia/alternativa...”.


Pasolini sapeva perché era un intellettuale. Perché l’intellettuale sa leggere i fatti al di là delle prove che altri devono fornire: magistrati, poliziotti, politici. Se l’intellettuale deve interpretare la realtà in modo critico, se deve essere la spina nel fianco del potere (De André direbbe: -Non si può diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni[11]), ebbene, un intellettuale come Pasolini ci manca.
Un ultimo ricordo. De André, la cui sensibilità poetica e politica era molto vicina a quella di Pasolini, come ho cercato di dimostrare nelle pagine precedenti, compose nel 1990 un album dal titolo Le nuvole. Inevitabilmente ho pensato alle nuvole di Pasolini, al finale di Che cosa sono le nuvole, cortometraggio del 1967, uscito come terzo episodio del film Capriccio all’italiana. Nell’ultima sequenza, i burattini Ninetto Davoli e Totò vengono buttati nella spazzatura e, dall’alto del cumulo di rifiuti, prima di morire, vedono le nuvole per la prima volta. Chiede Ninetto, guardando estasiato verso il cielo: -Che cosa sono quelle?
Risponde Totò: -Quelle sono le nuvole
-E che cosa sono ’ste nuvole?
-Mah
-Quanto son belle, quanto son belle, quanto son belle!
-Ah, straziante e meravigliosa bellezza del creato...

Bibliografia

AA. VV. Il cinema in forma di poesia, Cinemazero, Pordenone, 1979
Fabrizio De André e Alessandro Gennari, Un destino ridicolo, Einaudi, 1996
Alberto Garlini, Futbol bailado, Sironi, 2004
Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro, 1995
Pier Paolo Pasolini, Autointervista, Corriere della sera, 25 marzo 1975
Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, 1957 e 1976
Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Garzanti, 1961 e 1976
Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, Garzanti, 1964 e 1976
Pier Paolo Pasolini, Teorema, Garzanti, 1969 e 1991
Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, 1972 e 1991
Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, 1975 e 1990
Pier Paolo Pasolini, La Divina mimesis, Einaudi, 1975 e 1993
Pier Paolo Pasolini, La nuova gioventù, Einaudi, 1975 e 2002
Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, 1976
Pier Paolo Pasolini, Teatro, Garzanti, 1988
Cesare G. Romana, Smisurate preghiere, Arcana, 2005


[1] P. P.Pasolini, La nuova gioventù, Einaudi, 1975 e 2002
[2] da un’intervista alla tv svizzera, riportata in Il cinema in forma di poesia, Cinemazero, Pordenone, 1979, p. 171.
[3] A questa idea rende omaggio Sergio Citti col film Magi randagi, girato nel 1996
[4] Pier Paolo Pasolini, Il Castoro, 1995, pp. 156-158
[5] Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, Garzanti, 1964 e 1976, pp. 126-127
[6] a sua volta, il cantautore romano dedicherà una canzone alla memoria di Pasolini: A Pà, nell’album Scacchi e tarocchi del 1985
[7] Da Teatro, Garzanti, 1988, pp. 711 e succ.
[8] vedasi in Scritti corsari, Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo, pubblicato sul Corriere della sera del 24 giugno 1974 col titolo Il potere senza volto
[9] Su Paese sera dell’8 luglio 1974, col titolo Lettera aperta a Italo Calvino: P. quello che rimpiango
[10] Pubblicato sul Corriere della sera in data 9 dicembre 1973, col titolo Sfida ai dirigenti della televisione
[11] Nella mia ora di libertà, in Storia di un impiegato, 1973, Dischi Ricordi